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Il nuovo mondo dell’archeo-gastronomia

di Manuel Lombardi* e Sante Roperto

 

Essere agricoltori un tempo era una condizione sociale alla quale la miseria ti obbligava e dalla quale si provava ad emergere. Oggi il contadino è sempre più spesso un imprenditore che vive nuovi concetti, una nuova maniera di produrre e una diversa relazione con la terra. Valori come la difesa dei beni comuni della natura, la lotta contro la distruzione dell’ambiente, nonché i problemi della salute hanno conquistato il proscenio e rappresentano la nuova frontiera dell’agricoltura. Obiettivi su cui costruire una dimensione più moderna di un mestiere antico. In questo contesto è nata l’archeo-gastronomia. Ma cosa è veramente? Negli ultimi anni sempre più spazio ha guadagnato il recupero di piatti, cibi e sapori dimenticati. Una filosofia gastronomica trasformata in uno strumento per recuperare ciò che è sui libri di storia. Qualcosa di storico ma non vecchio, un modo di porsi e di ancorarsi al passato non solo attraverso ricette o ingredienti.

L’archeo-gastronomia offre un viaggio nel passato, tra biodiversità e agricoltura. E questo modello è un valore aggiunto per l’economia circolare, per il recupero delle qualità gastronomiche, delle tradizioni storiche locali e potenzialmente turistiche. La papaccella napoletana, il lupino gigante di Vairano, il conciato romano, la cipolla di Alife, le albicocche del Vesuvio, questi e molti altri prodotti (ormai tra i tanti presidi slow-food della Campania) possono rappresentare per i consumatori una preziosa storicità con gusti nuovi e con l’equilibrio di alcune diete del passato.

Prodotti che raccontano un bene, un valore, una sorta di carta d’identità del territorio che va oltre il prodotto, ma che raccontano la necessità del tempo. Se ci fermassimo solo al prodotto, non ne capiremmo la versatilità, non riusciremmo a spiegare il costume o l’identità del territorio. Tutto questo oggi può essere una risorsa da valorizzare. Sulla quale costruire uno storytelling adeguato che in Italia non siamo mai veramente riusciti a realizzare (nel food storytelling i pubblicitari americani hanno sempre una decade di vantaggio).

È chiaro però che questo lavoro non coinvolge solo gli operatori del settore, ma si tratta di un’azione profonda da fare in sinergia per diffondere il valore di alcuni prodotti ed essere riconosciuti dal mercato locale e nazionale.

Abbiamo una risorsa unica al mondo sotto i nostri piedi e una cultura da riprendere e sviluppare nel tempo, con abnegazione e perseveranza. Ma che, come tutte le semine, ha bisogno di tempo per essere raccolta.

*Presidente Coldiretti Caserta

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